Festival (2021-)

32° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano

Il 32° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina si è svolto a Milano nelle giornate marzoline d’inizio primavera, baciato da un sole caldo e ventoso.

Toccante nella sua promozione di valori importanti l’animazione cinese“Xiong Shi Shao Nian”, ovvero “Sono ciò che sono” di Sun Haipeng, racconto di come tre ragazzi possano appassionarsi alla Danza del Leone, danza rituale eseguita per celebrare ricorrenze importanti nel calendario cinese, tanto da diventarne insuperabili campioni. Emergono nel film infatti tutte le differenze tra la nostra società vanesia, egocentrica, esibizionista e individualista e quella cinese, orientata all’impegno, all’abnegazione, alla solidarietà, all’agire comune, al rispetto degli altri. Fortunatamente il declino non reversibile dell’Occidente e l’ingresso a pieno titolo nel secolo cinese, quello in cui il Partito Comunista di quella nazione orienta un’alleanza planetaria tesa a costruire relazioni rispettose tra tutti gli stati, dopo secoli di sfruttamento da parte dell’imperialismo occidentale perpetrate fino a oggi con il furto delle materie prime energetiche e alimentari, ci garantirà un più degno XXI secolo e una nuova stagione di fraternità per l’umanità intera.

Premio Comune di Milano al miglior lungometraggio della sezione “Finestre sul mondo” a “Tengo sueños electricos” di Valentina Maurel, premio al miglior cortometraggio africano a “Mistida” di Falcão Nhaga. Il premio del Pubblico Città di Milano al mongolo “Harvest Moon” di Amarsaikhan Baljinnyam, capace di restituire la bellezza degli sconfinati spazi di quella meravigliosa terra abbracciata da Cina e Russia. (D.R.  e V.D.)

Un capolavoro azero è finito per caso nel miserando guazzabuglio di una generale mediocrità
di 
Davide Rossi 
da
sinistra.ch

Corti o lunghi cambia poco, se arrivano da Cuba son degli sconclusionati sogni di un lavoratore senza troppa coscienza di classe, se arrivano dal Nicaragua devono parlare male del presidente Daniel Ortega, se sono russi devono essere antirussi e ci devono spiegare che Stalin e quindi Putin e tutte e tutti i russi di oggi son dei cattivoni, ugualmente se il film è ucraino deve mostrare la grande solidarietà tra nazisti, femministe e omosessuali, uniti contro ovviamente sempre i cattivoni russi, con il solito codazzo di piagnistei solidali a tutte le ore per l’Ucraina, in verità non il suo popolo, ma per il poco raccomandabile Zelenskij e la sua smania di armi e ancora armi, per poter non finire più questa tragica guerra, se si parla di lotta di liberazione nel 1974 del popolo angolano spuntano gli zombi, se si finge di avere un approccio antropologico navigando in mezzo all’oceano Pacifico, si finisce in una farsetta sanguinolenta che fa un miscuglio miserevole di miti malesiani e indonesiani, se si vince il Pardo d’Oro ci deve essere del sesso estremo e non si capisce se si voglia denunciare o compiacersi della violenza. Gli orientamenti dunque del Festival sono sempre chiari e netti, ribaditi anche in apertura di manifestazione (https://www.sinistra.ch/?p=13915), il Festival deve suonare le trombe del sistema liberale, infischiarsene della storica neutralità elvetica e poco importa se alla fine il suono è quello stridulo della trombetta della pellicola “medievale” italiana, modestissima e imbarazzante per sceneggiatura e realizzazione. 

Tanto come detto già anni fa (https://www.sinistra.ch/?p=6801) conta il pubblico, sempre generoso e sempre numeroso, in primis quello pagante ticinese, che nella serata libera dei primi giorni di agosto si riversa nella piazza Grande sapendo di essere più lui il protagonista dell’evento piuttosto che i fotogrammi che scorrono sullo schermo più grande del mondo.

Certo suona amara o come un inverecondo scherzo l’aggiunta alla sigla di testa che parla di “cinefilia illimitata”, l’amore per il bel cinema è travolto dalla modestia e dalla mediocrità delle proposte, tiranneggiate dai distributori e dai produttori, che promuovono autori e registi ignoranti fino all’imbarazzo, come quando il critico e inviato de “La Regione” pone loro qualche domanda in merito a quelli che dovrebbero essere i loro naturali riferimenti cinefili. 

In questo miserando guazzabuglio scompare quasi affogato da tanta mediocrità il poco che si può salvare.“Ultima proiezione” dello straordinario regista kazako Darezhan Omirbaev, autore di capolavori come “Studente” e “Poeta”, ma infilato non si sa perché tra i “Pardi di domani”, racconta la fuggevole impalpabilità di un amore giovanile nel cuore di un ragazzo che alle superiori preferisce il sogno dell’arte alla noia della matematica, poi per caso o per sbaglio, data la coproduzione svizzera, un altro capolavoro, ovviamente snobbato dalla giuria, “Il sermone ai pesci” dell’azero Hilal Baydarov arriva in concorso. È la storia dolente di guerra e inquinamento, di petrolio e solitudine, di amore per la terra e le proprie radici, le immagini sono di una bellezza commovente, arricchite da una fotografia intensa che valorizza il campo lungo, ovvero il cinema, soffocato in questi anni da cineprese a spalla ballerine che stanno addosso ai protagonisti e ai dettagli del racconto con danno colossale per la narrazione cinematografica. “Il sermone ai pesci”, titolo ispirato al meraviglioso dipinto di Paolo Veronese che illustra la celebre predica agli abitanti dei mari del poverello di Lisbona, meglio noto come sant’Antonio da Padova, è la prima pellicola di una trilogia che abbraccerà anche gli uccelli e il vuoto. Nel film la sorella di Davud intanto abbraccia la natura che la circonda, confondendo i suoi neri e intensi occhi e altrettanto scuri capelli nel folto dei prati, lungo le strade, le sue mani si fanno rami tra gli alberi, che, piegati da secolari venti, colorano d’oro intenso le foglie nell’approssimarsi dell’autunno che è tramonto non solo della stagione feconda, ma anche metaforicamente della vita. Va ricordato che Bayadarov già si era fatto apprezzare a Venezia nel 2020 per il pregevolissimo “Tra le sparse morti”, in cui poesia e immagini si fondevano indicando un percorso in cui ha dimostrato di procedere progredendo.

Locarno chiude la sua 75° edizione con i consueti trionfalismi: bene, evviva, hip hip hurrà! Il coraggio di aprirsi a tutto il mondo non c’è più, rinserrati nel fortino occidentale Locarno, al pari di Berlino, Cannes, Venezia, ci racconta che dobbiamo diventare un coro a un sola voce, quella dei valori dell’individualismo e del liberalismo, con tutto il contorno di declinazioni civili che questi ultimi anni ci hanno regalato. La tiritera abbraccia come detto quasi ogni produzione presentata, dai corti e lunghi, alle realtà virtuali e alla video-arte. È cinema e sono festival che si trovavano già in guerra con il resto del pianeta, i suoi valori e si suoi sentimenti da prima del febbraio 2022. È tutto un battersi le mani guardandosi allo specchio, al pari delle Mostre d’Arte Cinematografica di Venezia del secondo conflitto mondiale, in cui, oltre alle pellicole italiane si proiettavano solo quelle dell’alleato tedesco e delle nazioni occupate, tra frenetiche acclamazioni di giubilo. Al pari di oggi.

75° Locarno Film Festival
di
Angelica Forni 

Il 75° Locarno Film Festival ha visto trionfare nel Concorso Internazionale “Regra 34” di Julia Murat, un film brasiliano che esplora il tema degli abusi sulle donne e dell’oppressione razziale indagando su come un sistema oppressivo possa riflettersi anche nelle pratiche e nei gusti sessuali. La stessa protagonista, Sol Miranda, studentessa di diritto specializzata nei casi di abusi, comincia così ad esplorare il mondo del BDSM. Il Pardo d’Oro per il Concorso Cineasti del Presente è stato invece assegnato al film slovacco “Svetlonoc” di Tereza Nvotová, una pellicola che  narra le vicende di una giovane donna indipendente, Natália Germáni, tornata nel suo paese natale e che intende approfondire la percezione della figura femminile tra tradizione e mitologia popolare. Novità di quest’anno il Pardo Verde WFF, che non poteva essere vinto da altri se non da “Matter Out of Place” di Nikolaus Geyrhalter, film austriaco in concorso nella sezione Internazionale e dedicato all’accumulo di rifiuti nelle discariche e su chi vi lavora. Infine, “Tengo suenos eléctricos” si aggiudica i premi per la miglior regia a Valentina Maurel, alla miglior attrice, Daniela Marin Navarro e al miglior attore Reinaldo Amien Gutiérrez. 

In generale il Locarno Film Festival di quest’anno sembra proporre e valorizzare principalmente pellicole europee e americane che raccontano storie in linea con i gusti e le tendenze politiche occidentali. Questa tendenza va a discapito della vocazione internazionale del festival, che prima del 2017 si chiamava ancora “Festival del film Internazionale di Locarno” e che più che un’opportunità di scambio multiculturale diventa un momento di critica unidirezionale in linea con le narrazioni progressiste del mondo “libero” globalizzato. Tuttavia questa attitudine progressista viene meno quando si tratta dei salari e dei turni di lavoro dei giovani e delle giovani che lavorano durante il festival, rendendolo un elemento quasi di facciata. 

Non tutto è perduto. Alcuni dei film proposti in quest’edizione hanno si sono distinti per gli argomenti e le narrazioni sviluppate: “Nação Valente” di Carlos Conceição che ha saputo trattare in modo curioso e intrigante il tema degli echi dell’imperialismo portoghese ancora oggi presenti, e “Balıqlara xütbə” di Hilal Baydarov che narra di un giovane soldato azero ritornato al suo villaggio e confrontato con le conseguenze della guerra. 

Da menzionare il film “LOLA”, primo lungometraggio di Andrew Legge che, nonostante alcune dimenticanze storiche, si è altamente distinto per l’accattivante storia, la particolarità delle riprese e per la performance delle attrici protagoniste Emma Appletown e Staphanie Martini. 


31° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano
di
Davide Rossi

Anche il Festival di Africa, Asia e America Latina 2022 di Milano conferma, come già la Berlinale, il declino delle rassegne cinematografiche internazionali. Un tempo andare a un Festival significava vedere film di Africa, Asia, America Latina ed Europa Orientale che raramente sarebbero stati distribuiti e che offrivano una strepitosa e straordinaria occasione per conoscere popoli e culture senza la mediazione dei media occidentali, oggi invece le opere provenienti da nazioni esterne all’Occidente sono realizzate da registi e sceneggiatori che spesso vivono in Occidente, condividendone l’universo culturale e valoriale, oppure sottostanno, anche contro la loro volontà, a produttori e sceneggiatori che intendono obbligarli a realizzare opere fruibili da un pubblico occidentale, con le quali si chiede loro di offrire quel tocco esotico che abbellisce pregiudizi stereotipati e approcci ideologici tutti interni al pensiero liberal-democratico, con buona pace dell’apertura alle altreculture, una farsa meschina e autocelebrativa con cui l’Occidente accampa la pretesa di essere migliore degli altri.

Modibo Keita tenta a partire dall’indipendenza del 1960 la costruzione del socialismo maliano, affiancando alle monoculture del cotone e delle arachidi, impiantate dai colonialisti francesi, anche un recupero dell’agricoltura in funzione di un progetto di auspicata autosufficienza, tuttavia il rifiuto di aderire al franco africano sotto controllo parigino porta molti produttori agricoli, in combutta con commercianti e grossisti, a sabotare la loro stessa nazione, vendendo le derrate in nero alle nazioni confinanti e agganciate al sistema monetario predatorio francese. Per provare a scalzare il sistema dei sabotatori interni, veri e propri kulaki maliani, che aggirano la Somiex, Société malienne d’importation et d’exportation, titolare in esclusiva delle importazioni ed esportazioni, e lottare contestualmente contro l’atavico feudalesimo rurale incentivato in precedenza dai colonialisti con i capo villaggio fedeli a Parigi, il socialismo maliano mette in campo con decisione un progetto di coltivazione collettiva dei campi, detta in bambara “maliforo”. I sovietici forniscono gli Ilyushin per la nascita dell’aviazione civile maliana, i cecoslovacchi supportano la nascita dell’industria di trasformazione e dotano l’esercito dell’equipaggiamento necessario, gli jugoslavi cooperano per l’avvio di fabbriche conserviere, tanto preziose per i momenti di siccità, Kim Il Sung e i coreani contribuiscono alla nascita dell’industria della ceramica, la Cina di Mao Ze Dong impianta un tabacchificio con annessa produzione di fiammiferi. Cacciati i francesi e le loro truppe e decretato il non allineamento del Mali, Modibo Keita sostiene la lotta per l’indipendenza dell’Algeria e il tentativo dei lumumbisti congolesi di resistere all’avvento della dittatura. Tuttavia l’aggressione occidentale prevale, imponendo nel ‘68, pur tra non poche contraddizioni, il governo militare di Moussa Traoré che di fatto terrà il suo popolo in ostaggio degli interessi franco – statunitensi fino al termine della Guerra Fredda. Tutto questo tuttavia emerge molto sommariamente in “Twist a Bamako” di Robert Guédiguian, anzi viene ridotto allo scontro tra un ingenuo idealismo giovanile e una immeritata e volutamente derisoria pedanteria burocratica appioppata ai marxisti edificatori della nuova società. Per fortuna oggi Mali e Burkina Faso si sono ribellati al neocolonialismo occidentale e all’imperialismo, creando governi volti a rispondere alle esigenze della popolazione e a edificare in collaborazione con russi e cinesi un mondo multipolare e di pace.

Il Mali indipendente degli anni ‘60 rimanda a un’opera contemporanea per svolgimento dei fatti, ma realizzata nel 1972 con l’aiuto dei marxisti della Repubblica Popolare del Congo da Sarah Maldoror: “Sambizanga”, nome della famigerata prigione della PIDE a Luanda, pellicola basata sull’opera di José Luandino Vieira, il quale con l’avvento del socialismo in Angola sarà presidente dell’Unione degli Scrittori. È la storia di Domingos Xavier, un attivista rivoluzionario, arrestato, torturato e ucciso, di sua moglie Maria e dei suoi figli che lo cercano senza fortuna. Le colonie portoghesi infatti allora ancora lottavano per l’indipendenza che arriverà solo dopo la Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974. “Sambizanga” vincerà il Festival di Cartagine del 1972 a pari merito con “Uomini sotto il sole”, epopea palestinese tratta dall’omonimo romanzo di Ghassan Kanafani.

Ambientato nel tempo presente “Lingui, i legami sacri” del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, il quale con sguardo delicato e poetico racconta la storia a N’Djamena di Amina e della figlia Miriam, alla ricerca di un cammino di emancipazione femminile alla fine conseguito dalle protagoniste, ma molto favolistico rispetto alla realtà.

“Poeta” del kazako Darezhan Omirbayev primeggia alla 72° Berlinale
di
Davide Rossi
da SINISTRA.CH

Dieci anni fa il grande regista kazako Darezhan Omirbayev ha portato a Cannes il magnifico “Lo studente” dalla strepitosa fotografia: il vaso di frutta, la casa di legno colorata, gli sguardi, i pensieri, era una storia di vaga ispirazione dostojevskiana, incentrata sulla dicotomia insanabile tra presente e passato, in cui il secondo perdendo vince. Da un lato l’arroganza dei soldi, le case moderne, dall’altro lo studente protagonista, nella sua vecchia dacia russa, stretto tra la sua famiglia, l’amata, il padre di lei, scrittore sovietico oramai dimenticato, i primi vincono ma sono privi di umanità, i secondi perdono, ma riannodano il filo delle generazioni, rendendo possibile immaginare un diverso domani. Con il capolavoro “Poeta”, presentato ora a Berlino, ci troviamo di fronte a una nuova riflessione sul tempo, sulla parola e sul suo potere, ma anche sui limiti che devono affrontare tutti i poeti nel passato come in un presente distratto, in cui la tecnologia e la modernità sembrano addirittura negare il diritto alla poesia. Didar, un giovane poeta kazako, resta spaesato di fronte a una società che accetta il colonialismo culturale anglofono come strumento di trasmissione dei contenuti, che si riduce a essere fruitrice passiva di immagini trasmesse dai dispositivi elettronici, i suoi pensieri e le sue parole corrono al mitico Otemisuly Makhambet, ucciso nel 1846, venerato sulla sua tomba in silenzio per decenni, mentre le sue parole risuonavano nel cuore di un popolo che stava facendosi nazione. Nel 1966 i sovietici ne riesumano le spoglie, nel 1974 ne consegnano i resti a uno studioso, forse il momento più toccante della pellicola, in una assolata giornata estiva mentre spensierati ragazzi suonano e cantano nel giardino comune della brezniovka, una  delle case prefabbricate che ancora oggi segnano tanta parte dell’orizzonte geografico e abitativo post-sovietico, la pellicola si conclude sulle epigrafi del mausoleo di Makhambet, voluto nel 1983 dal potere marxista moscovita e ampliato nel decennio successivo dal nuovo governo kazako, consapevoli entrambi di dover onorare parole eterne di bellezza e libertà.

Gangubai Harjivandas, nata nel 1939, a sedici anni a Mumbai è venduta, picchiata e violentata, in un’India lontana alla metà del Novecento, è tuttavia riuscita a trovare in lei la forza e la determinazione, la sensibilità e l’intelligenza per intraprendere la strada del riscatto suo e di tante ragazze costrette nella sua condizione, tutto questo è raccontato nello spettacolare e toccante “Gangubai Kathiawadi” dal regista Sanjay Leela Bhansali con la bella e volitiva Alia Bhatt nella parte della protagonista di uno dei più meritevoli, ancorché dolorosi, esempi di emancipazione femminile.

Nuova straordinaria prova autoriale di Ulrich Seidl con “Rimini”, restituita non nella bellezza delle sue estati, ma nel turbinio ventoso di invernali piogge, nebbie, nevi, un grigiore dimesso e plumbeo che accompagna fotogramma dopo fotogramma il racconto degli austriaci di oggi, anziani modestamente abbienti e tristi, paradigmatici di tutto il continente, capaci di farsi bastare una scampagnata fuori stagione in alberghi desolati e scrostati, l’ebbrezza di un concerto di un loro conterraneo, attempato melodico dagli atteggiamenti da rockettaro degli anni ’70, interpretato da un superlativo Michael Thomas, pronto ad arrotondare per sopravvivere con improbabili prestazioni carnali a pagamento per le concittadine in cerca di fremiti e ricordi ferocemente sbiaditi.

“Nana” di Kamila Andini, con una fotografia e una regia di squisita bellezza, ci parla della persecuzione dei comunisti indonesiani alla metà degli anni ’60, ovvero di come un movimento di straordinarie dimensioni, profondamente radicato tra i ceti popolari e con solidi ancoraggi nel mondo intellettuale, sia spezzato e distrutto dall’avvento della dittatura di Suharto, imposta da Washington. La grande storia si muove sullo sfondo, attorno a Nana, interpretata da una magistrale Happy Salma, e alla sua famiglia, in una casa immersa nel verde di Bandung, là dove il presidente indonesiano Sukarno aveva invitato alla metà del decennio precedente i capi di stato delle nazioni emergenti, dal ghanese Kwane Nkrumah al cinese Zhou Enlai, per lanciare il Movimento dei Non Allineati, che prenderà forma compiuta nel 1961 per volontà del marxista jugoslavo Tito.

Max Linz in “Lo stato ed io” si diverte a giocare nella Berlino di oggi sul senso della magistratura e della polizia in Germania, a confronto con i valori universali d’uguaglianza propugnati della Comune di Parigi, trascinato dalla poliedrica protagonista Shopie Rois.

La regista Lee Ji-eun con l’autobiografico “I segreti della collina” ci racconta la brutalità di un sistema scolastico competitivo in una società ferocemente classista quale quella sudcoreana della fine del XX secolo, l’esatto opposto del sistema educativo europeo, raccontato dal documentario belga “Cuori gentili” di Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes, che ci mostra adolescenti simpatici, ma fragili e spaesati, ben oltre la stagione pandemica.

Grande ma immeritato rilievo per le “Allodole su un filo”, modesto film di Jiří Menzel del 1969, tratto dall’omonimo romanzo di Bohumil Hrabal, poi vincitore della Berlinale nel 1990, quando il governo cecoslovacco ne ha permesso la circolazione, nonostante nel film si vedano borghesi anticomunisti che rifiutano il fazzoletto rosso dei pionieri, in segno di lontananza rispetto al percorso rieducativo a cui sono assegnati. 

La proiezione di “Mamma Roma”, seconda parte del dittico cinematografico d’esordio di Pier Paolo Pasolini, insieme ad “Accattone”, ci ha ricordato che è il centenario della nascita del geniale intellettuale, scrittore, poeta e regista bolognese per studi e friulano per profonde radici materne.

“Una femmina” di Francesco Costabile non convince sia per il soggetto, sia per le modalità realizzative, da un lato la pellicola riduce il fenomeno complesso, stratificato e ben radicato nelle professioni della ‘ndrangheta a un gruppo di sanguinari e arcaici montanari semianalfabeti, dall’altro, volendo realizzare una specie di favola orrorifica, si sceglie una fotografia bislacca, molto spesso a mezzo schermo sfuocato, comunque sempre a tinte scure e cariche per accentuare, al pari di una colonna sonora invadente e disturbante, una cattiveria che probabilmente si temeva di non riuscire a trasmettere a sufficienza con i volti e gli sguardi del collettivo attoriale. 

Dalla Catalunya e dalle Filippine le proposte migliori del 74° Locarno Film Festival
di
Davide Rossi
da
SINISTRA.CH

Sparita la sala stampa presso il palazzo Comunale, mettendo così i giornalisti nella condizione di lavorare malamente e senza averne dato almeno comunicazione preventiva, il 74° Festival del Film di Locarno ha chiuso i battenti con un bilancio artistico modesto, mostrando i segni tangibili di un declino delle rassegne internazionali che riguarda anche altre illustri manifestazioni. Un tempo andare a un Festival significava vedere film di Africa, Asia, America Latina ed Europa Orientale che raramente sarebbero stati distribuiti e che offrivano una strepitosa e straordinaria occasione per conoscere popoli e culture senza la mediazione dei media occidentali. Oggi invece le opere provenienti da nazioni esterne all’Occidente sono realizzate da registi, sceneggiatori, produttori che o vivono in Occidente o condividono l’universo culturale e valoriale occidentale, dunque ne rispecchiano gusti ed interessi, opere che vengono presentate, anche a Locarno, come russe, cilene, tunisine, ma in realtà sono prodotti studiati e pensati per il pubblico occidentale e che nessun russo, cileno o tunisino vedrebbe e meno che mai vi riconoscerebbe, se le vedesse, un reale spaccato delle loro società. Produttori e distributori giocano un ruolo determinante, non era così un tempo, e prendersela con i direttori artistici di queste manifestazioni sarebbe riduttivo, visto che più che i selezionatori, oramai svolgono il ruolo, forse neppure da loro apprezzato, di assemblatori schiacciati da interessi esterni, che superano di molto le loro possibilità. Film russi, cileni o tunisini che raccontano quei paesi esistono ancora, ma non vengono cercati, non vengono scelti, non vengono invitati. Per chi voglia vederli restano solo due possibilità, industriarsi con ricerche personali in rete per arrivare a conoscerne l’esistenza e poi provare a recuperarli, oppure, molto più difficile in tempo post-pandemico, cercare un aereo a basso costo e volare a Mosca o a Tunisi.

In questo quadro abbastanza desolante, sono poche le proposte locarnesi che emergano in una generale proposta, tanto nel Concorso Internazionale, quanto in Cineasti del Presente, ricca di opere capaci di brillare solo per la loro mediocrità.

“Sei giorni di corsa” della catalana Neus Ballús i Montserrat è la più riuscita e apprezzabile commedia del Concorso Internazionale, nata da una ricerca della scuola del documentario di Barcellona, racconta con straordinaria e ilare complicità la quotidianità e le normali disavventure di un trio di pronto intervento per problemi idraulici ed elettrici. Marito della titolare, che si arrabatta per non chiudere la piccola e modesta impresa ereditata dal padre, è Valero, stretto tra la stanchezza di un lavoro che non lo appassiona, una dieta che non riuscirà mai a portare a termine, una cordiale e caustica antipatia per il giovane marocchino Moha, che la moglie gli ha imposto come apprendista, un ragazzo che studia la lingua catalana, si impegna con scrupolo, cerca di capire una società tanto diversa dalla sua ed è chiamato a sostituire l’anziano Pep che, tra saggi consigli e desiderio di un meritato riposo, sta andando in pensione. Il trio racconta la difficoltà di relazionarsi con gli altri, non solo i colleghi di lavoro, ma anche gli altri che stanno dietro la porta degli appartamenti in cui devono rappezzare rubinetti cadenti e centraline elettriche difettate, mentre i più disparati clienti si frappongono alle loro fatiche, girando interruttori, volendo dialogare di qualsiasi tema distraendoli, inventandosi improbabili consigli relazionali e psicologici. La settimana corre e con essa i tre protagonisti che alla fine, mentre si muovono tra palazzine riconoscibili eppure anonime della periferia di Barcellona, ritroveranno loro stessi davanti ad alcune tapas e a un the marocchino, perché questi uomini, gli ultimi di un mondo sempre più precario, hanno nella forza della loro umanità il tratto distintivo di un cammino che proprio in essa può trovare salvezza.

Incredibile eppure possibile raccontare con arguzia disincantata la tragedia di un ciclone che devasta e uccide. A renderlo possibile in Cineasti del Presente Carlo Francisco Manatad con “Se il tempo è bello”, opera riuscita e spiazzante, perché coniuga un ironico sorriso con cui l’obiettivo indugia tra le strade devastate di Tacloban City, città filippina quasi interamente distrutta l’8 novembre 2013 dal tifone Haiyan, con il rispetto per il dolore e la morte. Ne nasce così una serie di quadri in cui un ragazzo, Miguel, la sua strepitosa fidanzata Andrea, interpretata dalla bravissima Andrea Rans Rifols, e la sua afflitta madre alla ricerca del padre, scandiscono, sequenza dopo sequenza, la vitalità dei vivi che cercano di tornare alla normalità sopravvivendo in un contesto in cui acqua ed elettricità non ci sono più e i primi soccorsi e lo stesso approvvigionamento alimentare sono garantiti a fatica dall’esercito. Furti di oggetti e di cibo sono all’ordine del giorno, ma anche processioni e preghiere in cui la dimensione religiosa, la profondità mistica e l’isteria disperante si confondono in un solo cammino. Morti e buio, candele e rosari, luci e canzoni, lampi e piogge, pistole e abbracci, tutto si insegue e si tiene in una dimensione al contempo cinematografica e antropologica, spiegandoci come sia impossibile sperare che la semplice razionalità possa prendere il sopravvento in contesti simili.


74° Festival del Film di Locarno
di
Emilio Sabatino

Nella cornice del Rivellino di Leonardo da Vinci di Locarno, in concomitanza con il 74° Festival del Cinema, in direttivo dell’ISPEC, Istituto di Storia e Filosofia del Pensiero Contemporaneo della Svizzera Italiana ha dato vita a un importante confronto tra il direttore dell’ISEPC Davide Rossi, Vittorio Agnoletto e il deputato ticinese Massimiliano Ay dedicato ai venti anni del NoG8 di Genova e agli odierni sviluppi del movimento internazionale alternativo all’unipolarismo della NATO, che, soprattutto per Rossi ed Ay, è rappresentato dalla costruzione di un mondo multipolare e di pace come tracciato dai comunisti cinesi e dai loro alleati. L’ISPEC ha attributo quest’anno tre premi. ISPEC Cinema al cortometraggio “FALGSC” della regista mongola Udval Altangerel che rammemora la straordinaria esperienza del programma spaziale Intercosmos, il quale, a partire dal 1978, nel quadro della solidarietà socialista, ha portato nel cielo cosmonauti di nazioni alleate dei sovietici, tra cui il mongolo Žùgdėrdėmidijn Gùrragčaa. Il direttivo ritiene che la regista rinnovi il senso utopico di quella epopea e del transumanesimo socialista, ovvero l’orizzonte di un domani in cui scienza e conoscenza possano garantire per l’umanità un futuro di benessere, uguaglianza e giustizia sociale. ISPEC Cultura a Daria Belokrjlova, affermata traduttrice, scrittrice, giornalista, insegnante di russo per stranieri, vice presidente del Festival Internazionale d’Arte “Lanterna di Genova”, poetessa di spiccata e profonda sensibilità, anche ambasciatrice della Comunità di Camagna Monferrato in Russia e nel mondo. quindi il premio speciale ISPEC CULTURA all’attrice Teresa Patrignani per la sua feconda carriera. Al Festival ha trionfato nel Concorso Internazionale l’indonesiano “Seperti dendam, rindu harus dybayar tuntas” di Edwin e nel Concorso Cineasti del presente Fratellanza dell’italiano Francesco Montagner dedicato a una famiglia islamica in Bosnia.

30° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano
di Davide Rossi1E229322-939A-4577-9423-71CF4B93583E

Il 30° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano si è svolto nel 2021 e non nel 2020 e on line, in entrambi i casi la ragione è stata la pandemia che oramai dalla fine del 2019 ha cambiato, almeno per il momento, lo scorrere delle nostre quotidianità. In ogni caso ricco e pregevole, come sempre, l’insieme delle proposte presentate. “Lunana, uno yak in classe” di Pawo Choyning Dorji racconta di come un ragazzo di oggi, del Bhutan, ma potrebbe essere di qualsiasi nazione del mondo, immerso nella modernità fatta di elettricità, luci, colori, amici e sogni occidentali, possa scoprire che luci, colori e vita si possono trovare ancora più autentici là dove l’elettricità non c’è, nella scuola del regno bhutanese più isoalta e montana del mondo, a Lunana, villaggio sperduto tra nuvole turchine e bellezze ventose, boschi e ruscelli. Il giovane Ugyen scoprirà un’umanità profonda, fatta di amicizia, solidarietà, comprensione, piena di slanci generosi e di yak, i pelosi buoi che popolano quella regione, offrendo latte e sterco, il primo per vivere e il secondo per scaldarsi, ma anche per inventarsi una improbabile quanto funzionale lavagna. Un ragazzino e otto bambine incantevoli impareranno con lui a sorridere della bellezza del sapere e del valore della scuola. Ugyen tornerà nella capitale Thimphu e andrà più lontano, ma portando con sé la consapevolezza che dovrà tornare là dove il canto è carezza del cielo. Esilarante il cortometraggio “C’era una volta al bar” dell’egiziana Noha Adel, girato mentre un gruppo di tifosi in un quartiere popolare del Cairo inveiscono, imprecano, litigano, discettano su chi abbia portato sfortuna, piangono per il loro eroe Mohamed Salah, autore di un rigore per gli africani, ma opaco sul campo, anche perché reduce dell’infortunio subito nella finale di Coppa Campioni per un fallo intenzionale di Sergio Ramos. Il tutto commentando il modesto secondo incontro ai mondiali di calcio del 2018 con i russi dell’Egitto, travolto quella sera 3 a 1 dai padroni di casa. Emergono così tutta una serie di idee e di pregiudizi che compongono, anche simpaticamente, un divertente spaccato della mentalità egiziana. Alla fine della competizione saranno tre sconfitte, peggio del 1990, quando in Italia i leoni erano riusciti a imporre il pareggio tanto all’Irlanda, quanto all’Olanda di Gullit e Van Basten, in questo secondo caso con una rete di Abdelghani. Tuttavia un mondiale, dopo vent’otto anni, è stato senza dubbio una festa popolare per tutti gli egiziani e in particolare per un paio di generazioni che per la prima volta hanno potuto assaporare la gioia di vedere la loro nazionale a quello che per le strade di Mosca si chiamava “Chempionat Mira po Futbolu”. Con “La nuit des rois” Philippe Lacôte ci racconta come il sottoproletariato delle baraccopoli di Abidjan, ancora oggi maggiore centro della Costa d’Avorio, sia stata reclutata dai golpisti al soldo di Sarkozy per defenestrate Laurent Gbagbo e imporre come presidente Alassane Ouattara, più accomodante con gli interessi francesi e occidentali, a danno dei suoi cittadini. “1982” di Oualid Mouaness racconta un giorno d’estate, sospeso nella calura mediterranea, chi nuota in una piscina, chi gioca a calcio, chi vive i primi amori che segnano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, ma in verità tutto è precario al punto che il silenzio delle cicale, altrimenti di casa in quei luoghi e in quella stagione, annunciano il peggio, la guerra civile libanese sta infatti in quel 6 giugno 1982 vivendo una breve quanto effimera pausa ed è pronta a deflagrare nuovamente, i notori criminali sionisti Begin e Sharon stanno per scatenare l’invasione del Libano, sarà una nuova stagione di sangue, che avrà nella strage dei campi palestinesi di Sabra e Shatila a settembre di quello stesso anno una delle pagine più drammaticamente dolorose della storia di Beirut e di quella nazione. Solo negli ultimi fotogrammi, mentre piccioni, forse colombe entrano in una scuola oramai vuota, si coglie la speranza per un futuro di pace. Le terre meravigliosamente sterminate della Mongolia, colline, steppe, pascoli, nomadi custodi di antiche tradizioni che si tramandano di generazione in generazione l’amore per la loro patria, i suoi colori e i suoi sapori, vivendo nelle tende, i geruud, plurale di ger. Quindi l’irruzione della modernità, le miniere, l’estrazione, i carotaggi per le ricerche. Un punto di incontro è oggi quanto mai indispensabile tra il passato da preservare e il futuro da costruire, di questo dialogo, a volte aspro e difficile, parla la regista Byambasuren Davaa, in “Le vene del mondo”.

VOTI

Locarno 75
di
Davide Rossi

Concorso internazionale 

8,5 ​Il sermone ai pesci di Hilal Baydarov Azerbaijan

5,5​ Dichiarazione di Mahesh Narayanan India

5​ Materia fuori posto di Nikolaus Geyrhalter Austria 

4​ Racconto di Alexander Sokurov Russia 

4​ Serviam – voglio servire di Ruth Mader Austria 

3​ Tartaruga di pietra di Ming Jin WooMalesia/Indonesia 

3​ Il pataffio di Francesco Lagi Italia 

2​ Nazione valente di Carlos Conceição Portogallo 

Pardi di domani 

8 ​Ultima proiezione di Darezhan Omirbaev Kazakhstan

Cineasti del presente

6​ Piccole di Julie Lerat-Gersant Francia

5​ Frammenti dal paradiso di Adnane Baraka Marocco

Settimana della Critica

6​ I visitatori di Veronika Lišková Cekia – Norvegia 

Porte aperte 

6,5​ Una pellicola sulle coppie di Natalia Cabral, Oriol Estrada Repubblica Domenicana 

72° Berlinale – 2022
di
Davide Rossi

8,5 Poeta di Darezhan Omirbaijev Kazakhstan

8 Rimini di Ulrich Seidl Austria

7,5 Nana di Kamila Andini Indonesia 

7,5 Gangubai Kathiawadi di Sanjay Leela Bhansali India  

7 Lo stato ed io di Max Linz Germania 

6,5 Calcinculo di Chiara Bellosi Italia

6,5 Leonora addio di Paolo Taviani Italia

6 I segreti della collina di Lee Ji-eun Sun Sudcorea 

6 Cuori gentili di Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes Belgio 

5,5 Noi, studenti! di Rafiki Fariala Repubblica Centro Africana

5.5 La patria di Saša di Julia Trofimova Russia 

5,5 Il giorno della mela di Mahmud Ghaffari Iran 

5 Il regno di dio di Claudia Sainte-Luce Messico 

5 Eroi della classe operaia di Miloš Pušic Serbia 

5 Felicità di Askar Uzabayev Kazakhstan

5 Da qualche parte oltre le scie chimiche di Adam Koloman Rybanský Cekia 

5 Un pezzo di cielo di Michael Koch Svizzera 

5 Una femmina di Francesco Costabile Italia 

5  Allodole sul filo di Jirí Menzel 1969 Cecoslovacchia 

4 La linea di Ursula Meier Svizzera

74 LOCARNO FILM FESTIVAL 2021
di
Davide Rossi

CONCORSO INTERNAZONALE

Sei giorni di corsa Catalunya 8,5

Nebesa di Srđan Dragojević – Serbia 7

Luzifer di Peter Brunner – Austria 7

Al Naher di Ghassan Salhab – Libano 6

Storie di Juju di CJ “Fiery” Obasi, Abba T. Makama, Michael Omonua – Nigeria 5,5

Gerda di Natalja Kudrjashova – Russia 5

Medea di Alexander Zeldovic – Russia / Israele 5

Piccola Solange di Axelle Ropert – Francia 4

I giganti di Bonifacio Angius – Italia 3

HISTOIRE(S) DU CINéMA

Quand nous étions petits enfants di Henry Brandt – Svizzera (1960) 8

La statua vivente di Camillo Mastrocinque (1942) 5,5

CINEASTI DEL PRESENTE

Se il tempo è bello di Carlo Francisco Manatad – Filippine 8

Le fate di Shankar di Irfana Majumdar – India 7

Mis hermanos sueñan despiertos di Claudia Huaiquimilla – Cile 5,5

Il legionario di Hleb Papou – Italia 5,5

Agia Emi di Araceli Lemos – Grecia / Filippine 5,5

Zahorí di Mari Alessandrini – Argentina 5,5

Fratellanza di Francesco Montagner – Bosnia Erzegovina 5,5

Sabbia bagnata di Elene Naveriani 5

L’Été l’éternité di Émilie Aussel – Francia 5

Mostro di José Pablo Escamilla – Messico 4

Flussi  di Mehdi Hmili – Tunisia 4

PORTE APERTE

FALGSC di Udval Altangerel – Mongolia 8

Cantano sulla collina Bat-Amgalan Lkhagvajav, Ian Allardyce – Mongolia 7

Vivi nella terra del cuculo delle nuvole di Minh Thy Pham Hoang e Nghia Vu Minh – Vietnam 7

Giovane amore di Lomorpich Rithy – Cambogia 6,5

PIAZZA GRANDE

Domani amore mio di Gitanjali Rao – India 6

Cento minuti di Gleb Panfilov – Russia 5,5

Monte Verità di Stefan Jäger -Svizzera 5,5

LYNX di Laurent Geslin – Svizzera 5,5

I vicoli di Justin Hamilton – Giordania 4

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